"Il tempo che ci vuole” di Francesca Comencini, a Venezia: lettera d'amore a papà Luigi, grande e dimenticato

Style 2024-09-07

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È una lettera d'amore di una figlia verso suo padre, Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini. In cui, in sceneggiatura e sullo schermo, i personaggi non hanno nome: solo "padre" e "figlia". Eppure un film esplicitamente, dichiaratamente autobiografico. Protagonisti Luigi Comencini (1916-20027), grande e quasi dimenticato, di certo sottovalutato autore del nostro cinema. E lei, Francesca, regista e sceneggiatrice. Una delle 4 figlie. Il film ce li mostra alla fine degli Anni 70: lui impegnato col Pinocchio televisivo, lei adolescente tra conflitti generazioni, politica e droga...
Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, arriva nei cinema il 26 settembre. Un film molto personale che la regista ha detto di aver voluto fare da sempre, ma di aver rimandato non sentendosi pronta. «Avevo bisogno di avere del tempo, proprio il tempo che ci vuole per elaborare tutti questi momenti di vita». Poi le chiusure per il Covid, il cinema fermo, l'angoscia. «Lì è emerso in un modo molto prepotente, il bisogno, il desiderio di rendere questo omaggio, di scrivere questa lettera d'amore al tempo stesso sia alla figura di mio padre come regista che come padre e al tempo stesso al cinema».
Il padre, Luigi Comencini, è interpretato da Fabrizio Gifuni. Nei suoi panni, invece, Romana Maggiora Vergano, scoperta quando ancora doveva girare C'è ancora domani di Paola Cortellesi. Una bella sfida per i due attori. Dice lei: «Sarò in grado? Sarò all'altezza? È la stessa domanda che la figlia si fa durante tutta la storia. Lì mi sono sentita più leggera, perché ho detto: cavalco questa sensazione». Lui: «Francesca ci ha accompagnati raccontando la storia di un padre e di una figlia. Lei bambina, adolescente, adulta. Lui uomo che invecchia. I rapporti di forza cambiano per raccontare la storia. Credo questa sia la forza del film che sta emozionando, universale».
Dice Francesca Comencini di quel padre uomo duro, estremamente coerente con se stesso. «Mi ha salvato la vita. Era era quello che volevo anche raccontare. È stato un uomo molto coraggioso, molto integro. E ho voluto anche raccontare questa gratitudine nei suoi confronti e anche questo altro suo insegnamento, dell'importanza del fallimento e dell'onestà nel dire tutti abbiamo fallito. Anche le persone che noi pensiamo essere più di successo. Credo sia stato un altro dei suoi insegnamenti molto molto importanti, E che cerco di trasmettere con questo film anche in relazione a quel momento della mia adolescenza, ormai molto lontano. In cui però in cui ho avuto un problema di dipendenza da una sostanza. Lo racconto nel film, perché non è uno stigma, non è una vergogna».

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