(Adnkronos) - Quello della ‘farmacoresistenza’ è uno degli argomenti attualmente più dibattuti in ambito sanitario e fa riferimento ad una progressiva diminuzione delle capacità terapeutiche di un farmaco. Come se quel medicamento, somministrato in forza di una sua riconosciuta capacità di agire con beneficio contro un determinato bersaglio patogeno per l’uomo, nel tempo diventasse sempre meno efficace, fino a diventare del tutto inutile se non tossico. E' il focus di 'Fermenti, il segreto della vita', la rubrica quindicinale curata dall’immunologo Mauro Minelli sotto l’egida della Fondazione per la Medicina Personalizzata ed in collaborazione con AdnKronos Salute,
“A supporto di questa problematica progressivamente montante, intervengono certamente le grandi potenzialità della farmacogenomica che risulta particolarmente utile, ai fini dell’ottimizzazione personalizzata delle scelte terapeutiche, soprattutto nei casi in cui determinati princìpi attivi dovessero possedere, in soggetti diversi, alterati “indici terapeutici” associati a dinamiche variabili di smaltimento metabolico dei farmaci - spiega Minelli - Ma, oltre a queste importanti componenti, già peraltro sufficientemente note tanto sul versante concettuale quanto su quello operativo, un nuovo filone di ricerca, suffragato da qualificate applicazioni scientifiche, va progressivamente emergendo affermandosi come “farmacomicrobica”, termine di conio nuovo ed efficace nel quale viene sintetizzata la capacità del microbiota (non solo intestinale) di interagire con un qualsiasi principio farmacologico”.
Dunque esiste una correlazione tra composizione della flora batterica che alberga nel nostro organismo ed efficacia o inefficacia dei farmaci che noi assumiamo, e tale correlazione va letta in duplice versione. “Per un verso c’è la possibilità che il microbiota intestinale, così come strutturato in ciascun singolo individuo, interagisca con i farmaci da quest’ultimo eventualmente assunti, alterandone le dinamiche di smaltimento metabolico fino a modificarne gli effetti terapeutici (annullandoli ovvero inducendo reazioni avverse) - continua l’immunologo - Per altro verso, invece, la conoscenza di queste dinamiche interattive “batteri/farmaci” può credibilmente generare strategie personalizzate di manipolazione della struttura del microbiota, ciò che porterebbe ad ottimizzare l’efficacia di eventuali terapie che il soggetto è chiamato ad assumere. Le prospettive per molti versi inedite, che scaturiscono dalle evidenze fin qui raccolte, risultano essere particolarmente interessanti non soltanto per il clinico, ma anche per tutti le figure a vario titolo coinvolte nella complessa gestione dei processi sanitari”.
“Quel che attualmente si sa è che oltre 100 sono i principi farmacologici nel cui metabolismo è stata documentata una qualche interferenza prodotta da componenti del microbiota, ed il numero dei farmaci e in costante progressivo incremento. Quello che più incuriosisce è che il problema della farmacoresistenza indotta dai batteri del microbiota non riguarda solo l’ambito più canonico delle antibioticoterapie, ma si estende molto su altre categorie di farmaci quali immunosoppressori, cardiocinetici, ipoglicemizzanti, antivirali, antiparkinsoniani, antinfiammatori non steroidei, farmaci usati per il trattamento di colite ulcerosa, morbo di Crohn o proctite”, osserva Minelli.
“Siamo ad un nuovo giro di boa nel nostro viaggio esplorativo delcomplesso ed affascinante mondo del microbiota: toccherebbe infatti a quest’ultimo il compito importantissimo di modulare, in ciascun paziente, l’efficacia di ogni terapia con la logica conseguenza che sue manipolazioni mirate potrebbero sortire effetti benefici sugli esiti di una cura altrimenti destinata a possibili insuccessi”, conclude l’immunologo.